Sant'Ignazio da Làconi
Una bisaccia piena di provvidenza e di bontà
Padre Fernando da Riese
Introduzione
Tra gli otto santi cappuccini, fioriti tra i secoli XVI e XIX, Ignazio è l'unico canonizzato vissuto nel '700. Risulta il primo in ordine di anzianità: ottanta anni di età, trascorsi tra Làconi e Cagliari nei primi tre quarti del '700, e sessanta anni di speciale consacrazione tra i cappuccini, nella Sardegna.
Visse tra un fiorire di miracoli, sin da fanciullo, nel paese di Làconi, nel Sarcidano, circondato da boscaglie di querce. Incontrando in piazzuole «dei puttini a giuocare» - assicurano i processi informativi - Vincenzo (era il suo nome di battesimo) si soffermava a guardarli e «preso un baccolino andava indicando or questo, or quello, dicendo: Tu sei del cielo». Quei fanciulli, da lui indicati, nel giro di pochi giorni, andavano davvero al cielo. Un dì, all'ora di pranzo, lo zio Pietro Sanna aveva solo due pani disponibili e molta gente, che aveva lavorato sulla sua terra, doveva mangiare. Intervenne Vincenzo e assicurò che quella provvigione era sufficiente. Così fu, perché tutti «mangiarono a soddisfazione... e ne sopravanzò per riportarne a casa».
Da quanto riferisce e documenta il Summarium, edito nel 1868 nella Positio super virtutibus e che riserva ben 121 pagine sui miracoli operati in vita e 86 pagine sui miracoli compiuti dopo morte, frate Ignazio risulta il santo più spettacolare dei cappuccini. Ci son tutte le prove per qualificarlo un personaggio da leggenda, uno di quei santi che appaiono trasognati e tutta luce nei mosaici absidali delle antiche basiliche cristiane.
E' scontato che non sono i miracoli a fare il santo, ma il quotidiano impegno e sforzo di servire Dio. Se il miracolo è segno della santità, la santità è grazia di Dio e collaborazione dell'uomo.
Pur luminosa di miracoli, la vita di Ignazio fu decisamente donata a Dio. Particolarmente dai venti agli ottanta anni.
Un «si» a Dio rimandato per anni
Nato il 18 dicembre 1701, chiamato al battesimo con i tre nomi di Francesco, Ignazio, Vincenzo, si trovò a vivere all'alba del secolo XVIII che, attraverso errori e apostasie, andava maturando quei germi che sarebbero esplosi nella Rivoluzione francese. Ad accoglierlo fu una catapecchia, cioè quattro mura malintonacate sotto un basso spiovente di tegole.
Era il secondogenito di Mattia Peis e Anna Maria Sanna, gente povera ma cristiana, sudante il pane lavorando un po' di terra in quel paesetto di Làconi, in diocesi di Oristano, a circa 600 metri sul mare, presso il versante orientale della Sardegna, costituito da poche umili case e capanne attorno al castello in cui risiedeva il Marchese. Lo seguirono altre cinque sorelle - una delle quali fu clarissa, suor Agnese - e due fratelli.
Se per tutta l'Isola, agli inizi del '700, la vita dei sardi era economicamente e socialmente dissestata, per mancanza di comunicazioni con il continente, per avversione al commercio e al mare, per insistenze di carestie e pestilenze e malaria, tanto più era difficile per la numerosa famiglia Peis. Anche la maternità di Anna Maria Sanna aveva conosciuto disagi, in attesa di Vincenzo. Per ottenerlo salvo e sano, l'aveva consacrato, ancora nel suo grembo, al Santo di Assisi: per questo, al fonte battesimale, lo aveva fatto chiamare anche Francesco. Ed aveva fatto voto di consacrarglielo, nel suo Ordine.
La famiglia Peis s'impegnò subito alla formazione cristiana di Vincenzo, che istruiva nel catechismo e avviava alla chiesa, dove, non ancora settenne, ricevette il sacramento della cresima, il 17 maggio 1707, e poi la comunione.
Ai trastulli Vincenzino preferiva la chiesa e quanto si svolgeva essa. La chiamava «la mia casa». Di buon mattino, trovandola ancora chiusa, s'inginocchiava dinanzi all'ingresso. I laconesi lo chiamavano «su santixeddu», il santarello, anche perché lo vedevano tutto il giorno con i suoi, nei lavori dei campi, nei quali pure si raccoglieva a pregare, in silenzio e solitudine, specialmente attendendo la mandria al pascolo.
Il giovane svelava di essere fatto per la vita claustrale, totalmente consacrata a Dio. Cominciò a dirsi chiamato da Dio a farsi Figlio di san Francesco. Papà Mattia, che sentiva il bisogno delle braccia di Vincenzo per portare avanti i quotidiani lavori per i nove Figli, lo dissuase, adducendo motivazioni di sua debole costituzione Fisica e di propri materiali interessi.
Gracile di complessione, nell'adolescenza Vincenzo s'ammalò gravemente, anche per i prolungati digiuni e mortificazioni. Fece voto di entrare tra i cappuccini, se san Francesco gli avesse ridato la salute. Venne la guarigione, ma non venne il «si» di papà Mattia alla decisione del figlio. Intervenne, ancora una volta, Dio.
Sul finire del 1721, Mattia ordinò a Vincenzo di partire a cavallo verso il pascolo, per sorvegliare la mandria. Balzato a cavallo, Vincenzo attraversò l'altipiano del Sarcidano. «Giunto ad un luogo tutto pieno di macchioni e selvoso, il cavallo..., improvvisamente impennatosi, si dié a correr furioso per la foresta». Vincenzo ricordò il voto emesso di farsi cappuccino e non ancora adempiuto. Lo rinnovò. Rientrato incolume in casa, espose l'accaduto ai genitori e la propria risoluzione, demolendo ogni loro obiezione, e ripetendo: «No, non mi vogliate proibire questo stato, perciocché il mondo non è per me».
Finalmente cappuccino
Il 2 novembre 1721, il ventenne Vincenzo, sul calesse guidato dal padre, viaggiava verso Cagliari, distante da Làconi circa ottantasei chilometri. Al convento di S. Antonio sui colle di Buoncammino, fatta la richiesta al padre Francesco Maria da Cagliari, provinciale dei cappuccini, di essere accettato come frate, Vincenzo si senti dire un brutto «no», motivato dalla infermiccia costituzione che non gli avrebbe permesso la vita di austerità e di lavoro presso i cappuccini.
Vincenzo - recluta non adatta per la esigente milizia francescana - ricorse al marchese di Làconi, don Gabriele Aymerich, un protettore della famiglia Peis, pregandolo di interporsi presso il provinciale dei cappuccini. Il giorno dopo, marchese e provinciale s'incontrarono e fu decisa l'accettazione di Vincenzo che, nella stessa giornata, si ripresentò al convento di Buoncammino.
10 novembre, nel solitario convento di S. Benedetto abate, che guarda le spalle di Cagliari, il giovane Peis, con il nome nuovo di fra Ignazio, mettendo da parte il caratteristico costume dei laconesi, vesti l'abito cappuccino e, sotto la direzione di fra Luigi da Nureci, il maestro, iniziò l'anno di noviziato che continuò - depone il teste fra Damiano da Neoneli - «con gran fervore di pietà e religione, osservando con somma e particolare diligenza tutte le regole anche le più minute, fossero di precetto o di consiglio... Fu notevole sopra gli altri il raccoglimento, il silenzio, l'obbedienza, frequenza di sacramenti, lo spirito di orazione... Era comunemente riputato per santo, e tanto più quando di notte, dopo il mattutino, fu trovato genuflesso davanti all'immagine della Madonna Santissima esistente sulla scala, ai pianerottolo che conduce alla sacrestia, e quivi si tratteneva in dolci e teneri colloqui colla medesima a voce sensibile».
Già dal noviziato si profilava, matura e completa, la spirituale fisionomia di sant'Ignazio, che sarà tipica del fratello cappuccino: sorridere sotto le umiliazioni e la fatica; ininterrotto recitar di preghiere, notte e giorno; analfabeta e uomo semplice, ma profondo intenditore delle verità cristiane; serena obbedienza ai superiori; vivente in giocondità, pur impegnato in uffici umili e sfibranti; cercatore di provvidenza e datore di pace e guarigioni; frammento di vangelo, che si muove per il mondo, al fine di fermentarlo di Cristo. Frate Ignazio, sin da novizio, impegnando con grinta la rude tenacia di montanaro, capi che questa doveva essere e la sua fisionomia e la sua missione, entro e fuori convento.
Lo apprese, una notte: fra Ignazio, prima del mattutino, salendo le scale carico di un'anfora d'acqua, la senti tanto pesante da non poterla reggere. Guardò a una Madonna, esposta sulla scala, e domandò aiuto. La Madre gli richiamò quanto avesse sofferto il suo Figlio divino, che portava bambino sul braccio sinistro, nei giorni di passione finiti sulla croce. La presenza di Maria SS. e l'esempio di Gesù l'accompagnarono per tutta la vita, per tutte le strade, in ogni fatica: con serenità e giovialità, qualità proprie di un francescano.
Fra pentole e gualchiere e poi per le strade
Giunse per frate Ignazio il giorno della professione, 10 novembre 1722. Vi giunse attraverso angustie, provocate da incertezze altrui sulla sua vocazione, più esattamente sulla sua malferma salute. Nella prima votazione quadrimestrale, apparvero quattro voti negativi, espressi dai confratelli del noviziato. Il novizio raddoppiò preghiere e mortificazioni e prestazioni. L'ultima votazione fu favorevole.
Il ventunenne professo - i testimoni dei processi tacciono o si contraddicono - sembra sia stato inviato nel convento di Iglesias. Lo confermano alcuni testimoni, indicandone l'incarico: dispensiere e cuciniere. Fu ad Iglesias che, un giorno, gli caddero inavvertitamente le chiavi della dispensa nei pozzo, mentre vi attingeva l'acqua per il refettorio. Ignazio «s'inginocchiò, e recitò devotamente tre Ave Maria alla Madonna, calò giù il bigoncio, e ne attinse le chiavi suddette».
Altri testimoni depongono che Ignazio, dopo la professione, sia rimasto nel convento di S. Benedetto, poi nel convento maggiore di Cagliari, al Buoncammino, addetto alla cucina e al lanificio, nel quale lavoro di «gualchiere per assodare i panni» passò i primi vent'anni di religioso, mostrandosi uomo di «perfetto silenzio», «sempre contenuto nel parlare».
Dalle gualchiere, nell'uso delle quali non appariva troppo esperto - assicurano alcuni testimoni - sempre restando nel convento di Buoncammino, passò alle strade di Cagliari, con bisaccia in spalla. Contava quaranta anni. Per quaranta anni fece il questuante, sino alla morte.
Può essere «una fortuita coincidenza di tempo», non disgiunta da «una misericordiosa e divina compiacenza» - fu fatto osservare dal papa Pio XII, il 27 marzo 1951, nella promulgazione del altrettanto per dare. Lungo tutte le strade della turrita e spagnolesca Cagliari e del Cagliaritano.
L'incitamento dei santi
A donarsi con tutta generosità frate Ignazio si sentiva spinto da confratelli santi, dei quali sentiva parlare. Novizio, nel convento di S. Benedetto, gli era stata prospettata dinanzi più volte, nelle istruzioni spirituali, la figura di fra Nicolò da S. Vero Milis, umile fratello, che aveva camminato per la Sardegna per cinquantasei anni, quale cercatore. Era morto da appena tredici anni, precisamente a Cagliari, nel convento di noviziato. Di quel frate, che aveva trovato la propria santità nell'umiltà e nel faticoso servizio della questua, Ignazio senti tutto il fascino. Se lo propose modello da imitare. Lo ritenne protettore da invocare.
Nell'Ordine cappuccino poi, in quella prima metà del '700, era tutto un parlare di esemplari frati, la cui santità veniva riconosciuta dalla Chiesa: ad esempio, Felice da Cantalice era stato canonizzato nel maggio 1712; sette anni dopo, aprile 1719, era stato dichiarato beato Serafino da Montegranaro; nel marzo 1729, ci fu esultanza per la beatificazione del protomartire dei cappuccini e di Propaganda Fide padre Fedele da Sigmaringa; nel giugno 1737, un altro beato, il missionario Giuseppe da Leonessa, che si trovò, una decina d'anni dopo, unito nella canonizzazione al beato Fedele da Sigmaringa, il 29 giugno 1746; nel maggio 1768, un'altra beatificazione, quella di Bernardo da Corleone; nell'agosto 1769, riconoscimento dell'eroicità delle virtù del futuro santo e dottore della Chiesa padre Lorenzo da Brindisi. Fra Ignazio si trovò a vivere in tale esplodente primavera di santità, ufficialmente riconosciuta e proposta.
Diversi testimoni ai processo ricordarono come Ignazio si ispirasse ai cappuccini saliti sugli altari. Ad esempio: «Rammentava spesso... la fortezza e costanza eroica dell'inclito martire san Fedele da Sigmaringa, e generalmente dei santi martiri della fede, e ne ascoltava le gesta con una santa ammirazione, e sommamente desiderava imitarli... Desiderava di spargere il sangue per amore e gloria di Dio a imitazione di san Fedele da Sigmaringa... di cui con santa compiacenza raccontava o udiva raccontare la gloriosa morte». «Parlava spesso dell'immensa carità di Gesù Sacramentato..., dando per modello di questa virtù il beato Lorenzo da Brindisi, e dicendo che questo beato era ben caldo d'amor divino, non come lui freddo». «Fu udito esternare il desiderio di avere l'umiltà e la penitenza del beato Bernardo da Corleone».
Ricevendole dai fratelli santi, anche Ignazio riversava le ricchezze di Dio sugli altri, fuori ed entro convento.
A mani piene
Ogni giorno per le strade di Cagliari significava, per frate Ignazio, ogni giorno il dono del buon esempio. Lo riconfermò il teste de auditu suor Maria Anna Herij, monaca clarissa a Cagliari: «Esercitò l'impiego di questuante per lo spazio di anni quaranta, edificando il popolo con una rara modestia e religiosa compostezza camminando sempre cogli occhi fissi in terra senza mai volgerli a guardare veruna curiosità, taciturno e silenzioso, aborrendo dalle inutili confabulazioni e parlare di mondo, e parlando poco e misurato, qualora o la necessità o l'utilità del prossimo l'obbligava a rompere il silenzio, tenendo sempre in mano la corona e recitandola devotamente, lo che praticava eziandio in convento: questo esteriore portamento del venerabile Servo era una viva esortazione e predica al popolo che lo vedeva passare, onde è che al suo comparire cessavano i dissidii, i mondani si componevano a contegno di riverenza e rispetto verso di lui, e però era tenuto quale angelo della pace».
La stessa teste documenta che era di edificazione, per la gente di Cagliari, vedere quel frate disimpegnare «questo ufficio di cercatore, per se stesso penoso e duro, tuttoché [egli fosse] gracile di complessione» e mantenersi «rigorosamente pel corso di quaranta anni... con tutta modestia in mezzo a tante distrazioni, umile e paziente». La prolungata predica del buon esempio.
Sono a bizzeffe le testimonianze che comprovano come il frate della bisaccia fosse l'atteso in quasi tutte le case di Cagliari, specialmente quelle del quartiere più povero, di Stampace. Era per lui un pagare caro, con lotte, pene, sacrifici, quella popolarità, quasi glorificazione terrena. Soprattutto quando affrontava certe interminabili scale che portavano a città alta, a Castello, al quartiere dei nobili, dove - per volontà dei superiori che spiegavano «quella gente ci tiene» - bisognava andare. E ci saliva, anche con i fastidi che un'ernia cominciava a dargli. Anche con i fastidi di tanta proclamazione delle sue virtù, di esagerate lodi del popolino, che potevano sollecitare la sua vanità e che egli respingeva, riconoscendosi miserabile uomo, bisognoso di un Dio che perdoni e usi misericordia, un frate che non sapeva né leggere né scrivere, e ben conosceva la debolezza dei proprio temperamento naturale.
Nei fatti che suscitavano stupore, mettendo a prova di fuoco la sua umiltà, Ignazio nascondeva la sua persona, mettendo avanti la potenza e la gloria di Dio. A chi ricorreva al suo conforto, nei dolori e nelle malattie, precisava: «Abbiate fiducia in Dio», e avvenivano le guarigioni. Anche, e non poche, risurrezioni di fanciulli morti. E moltiplicazione di cibi e bevande. I ciechi riprendevano a vedere. Alle parole mal biascicate del frate, le acque di quel bel Golfo di Cagliari si rabbonivano, a tranquillità dei marinai, e donavano abbondante pesca a chi di essa viveva.
Sapeva punire la poca fede. Ad un malato, che desiderava la guarigione, fra Ignazio dette l'invito di alzarsi. «Non posso», commentò il malato, il quale si senti redarguire dal cappuccino: «E se non potete, che cosa ci posso fare io?».
Ai malati, quel che fra Ignazio estraeva dalla manica del suo saio, era più efficace d'ogni medicina. Ed offriva bazzecole da far ridere, come pezzetti di pane duro, fichi rinsecchiti, fiori appassiti, bucce di limone, un uovo sodo... Risultavano medicinali portentosi. Anche per le spose, fossero del popolo o dell'aristocrazia, in trepidazione per il prossimo parto, il cercatore aveva la sua parola di fede che rasserenava e le sue strane medicine che assicuravano la felicità dell'evento.
Mostrò singolare tenerezza per le partorienti. Dette sicuri incoraggiamenti per l'accoglienza della vita umana nascente, con parole esitanti, mai pronunciate, ma strapiene di fede. Un teste: «Alle donne incinte, quando desideravano qualche frutta fuor di stagione, onde evitare il pericolo dell'aborto, cavava questa dalla... manica del suo abito, così fresca e matura, come fosse al momento tolta dal suo albero». Implorava, e otteneva da Dio, latte per le puerpere che dovevano compiere il loro primo servizio di mamme.
Se sul suo passaggio fiorivano i miracoli, prima ancora fioriva la fede. I processi informano che frate Ignazio «soleva dire Insomma, questuante e apostolo. Cioè, raccolta di pane, ma evangelizzazione a piene mani. Il quotidiano cammino di Ignazio, appoggiato al bastone e sgranante la corona del rosario, nello sfibrante sali e scendi per vie e scale di Cagliari, è un cammino che spesso Dio illumina, facendosi presente con interventi sempre protesi a lasciare una lezione e a svelare provvidenza.
Gioacchino Franchino, un negoziante carico di soldi, si lamentò con il superiore dei cappuccini di Buoncammino perché quel frate santo della bisaccia mai entrava in casa sua a chiedere l'elemosina. Richiamato dal superiore, fra Ignazio vi andò e fu accolto con tanta festa ed ebbe nella bianca bisaccia di lino «un pochetto di danaro». Avviandosi da Porta dell'Angelo verso il convento, da più persone Ignazio fu avvertito che dalla bisaccia «gocciolava sangue». In convento, il cercatore depose innanzi al superiore la bisaccia tutta rossa di sangue. Fu chiesto che ne fosse. In ginocchio, rispose: «E' roba de' poveri». E spiegò come la ricchezza di Franchino era frutto di usura, praticata da anni con «ingiustizie e mezzi illeciti» e che, per questo motivo, egli aveva sempre sentito ripugnanza di chiedere la carità a quell'uomo che dissanguava i poveri. La lezione servi. Franchino restituì il maltolto ai poveri.
Per correggere la frode di un lattaio «che vendeva latte adacquaticcio», fra Ignazio accettò l'offerta di latte e la fece versare entro la sacca. Da questa, sistemata sulla spalla, iniziò un gocciolio: era «l'acqua che vi avea mescolato» il lattaio imbroglione.
Un giorno, tornando con il compagno di questua al convento, con la sacca vuota, giunto a poca distanza dal convento, dove stavano forni abbandonati di calcina, pensando che per i frati non c'era pane, fra Ignazio «cominciò a raccogliere delle pietre e mettere nelle bisacce e lo stesso fece fare al suo compagno». Cammin facendo, fu costui ad accorgersi di un gran calore alle spalle e depose per un po' a terra le bisacce. «Entrati ambedue in refettorio si trovarono le bisacce piene di caldo e fumante pane».
Non c'era pane per i frati, quel giorno. Il cercatore Ignazio era in chiesa a pregare, mentre il frate dispensiere era tutto nervi. Due giovani, «pochi istanti prima del pranzo comparvero in convento e deposero a mano del dispensiere in refettorio due corbelli di pane, ed incontinente sparirono».
Al molo di Cagliari per la questua, visto che uno vendeva olio, spillandolo da una botte, Ignazio gliene chiese «in limosina per san Francesco». Invitato a presentare un recipiente, il frate offri la bisaccia di semplice tela, pregando di versarvi pure l'olio: allargò infatti e l'una e l'altra imboccatura della sacca, e portò in convento tutta quella grazia di Dio senza che «trapelasse stilla d'olio dalla bisaccia». Vista la cosa, il padrone dell'olio mandò al convento l'intera botte, che fu conservata per molto tempo e veniva indicata «la botte di fra Ignazio».
Raggiunto un ovile per elemosinare formaggio, Ignazio ebbe un rifiuto dal pastore. Si limitò a commentare: «Pazienza» e se parti, giù per il pendio. «Appena voltò le spalle, si videro alcune forme di formaggio quasi fossero animate corrergli dietro». Il pastore avaro, capita la lezione, rincorse il frate e gli fece carità di tutte quelle forme che l'avevano seguito e di altre ancora.
Luigi Chessa, muratore, lavorava sulla cornice della chiesa dei cappuccini a por dei fiori, sopra l'altare dinanzi al quale stava pregando Ignazio. Il Chessa sdrucciolò dalla scala. Il frate gli gridò: «Fermati». «E costui rimase sospeso in aria, ed accorso il venerabile Servo, gli sottopose la scala». Il muratore fu salvo.
Un frate, che non credeva alla decantata santità di fra Ignazio, s'appiattò di notte in chiesa per spiare il cosiddetto «santo» in orazione. Costui difatti pregava «innanzi all'altare della Purissima», e dopo qualche tempo si elevò «di terra fino all'altezza della nicchia della Madonna». Il religioso incredulo «si avvicinò quatto quatto, e gli toccò i piedi che erano freddi come di gelo». Ignazio restò cosi, elevato da terra, sino «al segno di mattutino di mezza notte», allorché, disceso «adagio adagio in terra», prese posto in coro per la preghiera comunitaria. Non crederemmo a tali «fioretti» e fatti prodigiosi, che sembrano leggende per incantare i bimbi, se non ci fossero stati molti testimoni a riferirli nei processi di beatificazione. C'è poi la testimonianza, scritta e stampata, di uno scrittore, per nulla sospetto, il tedesco Giuseppe Fuos, pastore evangelico, che seguiva come cappellano il reggimento di fanteria tedesco e che visse a Cagliari per tre anni, sino al 1777. Tale pastore protestante vide fra Ignazio e ne constatò la venerazione del popolo sardo, tanto che in un suo volume La Sardegna nei 1773-1776 (stampato in tedesco a Lipsia nei 1780) poté scrivere, con minuziosa e controllata oggettività di storico: «Noi godiamo qui una fortuna, la quale prova che la fede nei miracolo non è ancora estinta nella Chiesa. Noi vediamo cioè tutti i giorni mendicare attorno per la città un Santo vivente.., e si ha di già acquistato con parecchi miracoli la venerazione dei suoi compatrioti». E aggiunge l'elencazione dei più strepitosi miracoli di fra Ignazio, i quali documentano potenza e bontà di Dio e come Dio esalti gli umili.
Mentre gli altri io chiamavano «Padre santo», Ignazio si definiva «vilissimo uomo..., l'asino dei cappuccini..., inetto ad ogni cosa, vile indegno peccatore... Io sono il più grande peccatore del mondo».
Ricevendo villanie, godeva perché qualcuno capiva la verità: «Finalmente... si è trovato uno in Cagliari che mi conosca e mi chiami quel che io sono». A chi gridava di entusiasmo sui suoi miracoli, Ignazio intimava: «Zitto zitto, ché è cosa del Signore».
Svelavano la sua umiltà la cella dal «misero letticciuolo di nude tavole, e questo fornito di una pietra per cuscino», e il saio francescano «logoro e ruvido essendo di albaggio sardo», «un abito ruvido quale, previo il permesso del superiore, volle ritenere fino alla morte, quando si adottò in provincia la riforma del panno meno ruvido».
Umile, sino alla morte. Pochi giorni prima di morire, pur cieco da due anni, frate Ignazio sorprese nella cella la presenza silenziosa dei pittore don Francesco Massa, che gli voleva fare il ritratto, e lo dissuase: «Non sono io uomo da ritrattare: le persone vili non si ritrattano giammai. La loro memoria deve esser sepolta nell'oblio».
Nella primavera 1781, Ignazio andò al monastero di S. Chiara per dire «addio» alla sorella suor Agnese, vivente nella clausura. Postosi a letto, nell'infermeria del convento di Buoncammino, il primo giorno di maggio, attorniato dai confratelli spirò alle ore tre pomeridiane di venerdì il maggio 1781, «dolcemente come un bimbo». La campana ricordò la morte di Gesù e annunziò la morte dell'umile Ignazio.
L'esaltazione dell'umile la fece subito il popolo, accorso attorno alla salma del «frate del popolo» sardo. E' il suo superiore padre Antonio da Tadassuni che, in una circolare del 28 maggio 1781 inviata a tutti i conventi della provincia cappuccina di Cagliari, informa: «Chiusi finalmente gli occhi suoi, ed esposto il dì 12 alla mattina in chiesa il cadavere, fu d'uopo chiuderlo tra i cancelli d'una cappella per impedire in qualunque modo gli assalti del popolo accorsovi; ma non fu possibile, poiché, non ostante i soldati, aperto il cancello, chi baciavagli la mano, chi con tenerezza i piedi; e beato ciascun credevasi se la corona almeno in quella felice spoglia toccava; il giubilo e la tristezza in volto di tutti appariva, invidiando con tenere lagrime la vita illibata e la placida morte del trapassato religioso... Non fu tra gli ultimi la pietà del religiosissimo principe sua eccellenza il sig. conte Valperga di Masino nostro degnissimo viceré, che accompagnato da molta Ufficialità e cavalieri, entrato nella cappella, degnossi considerare attentamente il corpo del nostro fratello defunto... La mattina seguente, innalzatosi in mezzo alla chiesa dall 'amorevolezza dei benefattori un competente tumolo, l'illustrissimo capitolo, accompagnato dai signori consiglieri di questa nostra città, uscito con funebre pompa in processione dalla cattedrale, ebbe la degnazione di cantare una solenne messa colla più scelta musica; la che terminata dei soliti responsorii, fu posto il cadavere in un feretro chiuso dalla curia ecclesiastica con nove sigilli e con due chiavi..., e collocato il feretro per prudente disposizione dei superiori secolari in luogo separato, fu dato fine a si lugubre funzione». Il superiore di frate Ignazio, nella circolare citata, delinea con sicurezza il ritratto dell'umile laico, figlio e apostolo della Sardegna. Precisa: «Questo esemplarissimo religioso, vestendo il nostro santo abito sin dall'anno ventesimo dell'età sua, sempre fu veduto con stupore di tutti osservare un uguale tenore di vita mortificatissima, perché non che l'applauso, l'ammirazione si trasse di tutti i popoli, che ebbero la bella sorte e di vederlo e di trattarlo; e sulle ale della fama il merito singolare di questo nostro fratello estendendosi, non ignora la Sardegna tutta l'eroico delle sue esimie virtudi. Quindi fu che a lui vivente ricorreano tutti, chi per chieder consiglio, chi per ottener grazie e favori, e da tutti col nome di Padre santo, veniva comunemente appellato. A lui la primaria nobiltade, ed i primi Prelati, e le più illuminate persone comunicavano ed alle sue orazioni affidavano gli affari più interessanti. Lui bramavano nelle loro infermità gli ammalati, nella lor morte i moribondi, e fra questi non il volgo solo, ma i personaggi più distinti e dell'arcivescovado insigniti; da lui come da infallibile oracolo nei lor traffici i mercatanti, e nelle intraprese più malagevoli dipendevano; ed egli il buon religioso tutti caritatevolmente ascoltava, santamente consigliava e consolava teneramente».
Il prezioso documento, scritto a diciassette giorni dalla morte di frate Ignazio, ne evidenzia il profilo francescano: «Giudico superfluo il far noto... l'esattezza sua nella regolar osservanza, il primo in coro, non solo nella più verde età, ma ancora adesso, che l'ottantesimo contava degli anni suoi. Né per età si avanzata dispensavasi dall'intrapreso costume di passare più ore della notte in chiesa in contemplazioni continue; una pronta cieca ubbidienza, per cui il solo penetrar esser volontà dei superiori era bastevole l'eseguire qualunque cosa, caro lo rendea ai medesimi. Vero figlio del gran Patriarca dei poveri, altro non avea in suo uso che strumenti di penitenza ed un legno informe che del più morbido guanciale servivagli; un abito logoro dell'antico panno atto a nascondere la nudità, ma non a difendere il corpo dall'inclemenza delle stagioni, lo copriva fin ora. Le sue conversazioni, e colle persone del secolo e cogli stessi correligiosi fratelli, né mai furono oziose né mai indifferenti, perché sempre mirarono l'eternità, od il conto strettissimo che render dobbiamo in morte, o le vanità del mondo ingannevole. Una prodigiosa astinenza, un breve sonno, una mortificazione continua seppe unir sempre cogli atti comuni, anche nell'uffizio faticosissimo di cercatore per quaranta anni continui da lui con somma edificazione esercitato, e per anni sessanta di Religione conservò sempre e mantenne...». Un vero panegirico su frate Ignazio appena sepolto. I sardi ebbero sempre vivo il ricordo del «santo» da Làconi, che era stato sepolto in un luogo distinto dalla tomba comune dei frati, nella chiesetta del convento di Buoncammino, dinanzi alla cappella intitolata alla Madonna degli Angeli. L'iscrizione in latino, incisa su lastra di marmo, ne precisò subito le più caratteristiche virtù - innocenza, umiltà, penitenza, austerità - nei sessanta anni di vita cappuccina, e letizia nella morte; ne indicò la fama di santità, giacché riposava nel sepolcro cum sanctitatis acclamatione. Il 18 dicembre 1821, fu fatta la ricognizione della salma.
Trascorsero tuttavia sessantatré anni prima che si desse inizio alla causa di beatificazione, 16 luglio 1844. Cause del ritardo furono le vicende politiche nell'Isola e nel continente, particolarmente la Rivoluzione francese, la soppressione degli Ordini religiosi, gretti interessi e gelosia di un superiore dei cappuccini di Cagliari. Il primo processo ordinario informativo sulla fama di santità in genere si concluse a Cagliari, il 3 settembre 1845. Nessun processo fu fatto per raccogliere ed esaminare gli scritti, perché Ignazio non conosceva l'uso della penna.
Dopo altri processi, il 4 maggio 1854 fu emesso il decreto di introduzione della causa. Concluso il processo apostolico il 10 maggio 1860, dal papa Pio IX fu dichiarata l'eroicità delle virtù del venerabile Ignazio, con decreto del 26 maggio 1869. Esaminate tre guarigioni, avvenute nel 1923, 1928, 1933, furono riconosciute miracolose, con decreto del 14 aprile 1940. A 159 anni dalla morte del venerato laconese, il papa Pio XII lo dichiarò beato, il 16 giugno 1940, e Santo il 21 ottobre 1951, stabilendone la memoria annuale l'11 maggio.
Il papa dell'Assunta presentò «questo eroe di santità, di umile nascita e vissuto sempre in umili uffici», illuminandone alcune linee fisionomiche essenziali: «Le lunghe e gravi fatiche gli sembravano brevi; facile l'obbedienza dovuta ai superiori; dolci e soavi le sofferenze corporali talvolta acerbissime: e tutto ciò, che di piacevole o di contrario gli accadeva, era da lui abbracciato con quella tranquilla volontà, che si affida totalmente e si appoggia al volere divino. Quando questuava di porta in porta, per città, villaggi e campagne, la sua mente non era sulla terra, che toccava con i piedi, ma rivolta al cielo... Vederlo era per tutti di salutare esempio...».
Le popolazioni che vivono nella terra dei misteriosi nuraghi, nell'ora del dolore e per gioiosa preghiera, si danno ancor oggi appuntamento alla tomba del loro Santo, a Cagliari, e alla catapecchia natale, a Làconi, dove il 27 agosto 1960 fu inaugurato il museo di sant'Ignazio. In esso, fra altre umile cose, spicca la corona del rosario, la compagna di sant'Ignazio nelle camminate per la questua e nelle ore godute in chiesa o in cella.
Nel 250° della canonizzazione, la Sardegna volle una visita di sant'Ignazio, nei suoi paesi e città. La sua salma, raccolta entro urna, percorse la terra tanto amata, per benedire e incoraggiare la sua gente: un vero viaggio apostolico, dal 20 al 28 agosto 1976. Tale pellegrinaggio riuscì «un avvenimento religioso eccezionale, una tappa luminosa nel cammino della civiltà cristiana della Sardegna» (mons. Paolo Carta, arcivescovo di Sassari), «una bella stagione evangelica» (mons. Giovanni Pes, vescovo ausiliare di Oristano). Fu dimostrato come il «miracoloso cappuccino» sia «venerato ancora adesso, e sempre più, in tutta l'Isola» (Grazia Deledda).
La scrittrice sarda e premio Nobel Grazia Deledda, contemplando una caratteristica effige di fra Ignazio, commenta: «Già vecchio, già forse cieco, col rosario, il bastone, la barba ispida, il viso bruno camuso: non ha nulla del serafico: è però l'antico pastore sardo, nella cui bisaccia si nasconde un tesoro di sapienza e di bontà». Un altro scrittore e artista sardo, Remo Branca, biografo del Santo - nel cui volto sintetizza e scolpisce la tipica popolazione sarda, con parte della sua storia di povertà e di segregazione - nel 250° della canonizzazione, il maggio 1976, si soffermò a meditare e a scrivere su Ignazio: «un santo che, ancora una volta, conferma la verità evangelica che gli ultimi saranno i primi, ma anche la realtà che l'imitazione di Cristo solleva nella gloria della Chiesa e nella preghiera dei cristiani chiunque abbia saputo nascondersi vivendo e amando il prossimo come se stesso».
L'analfabeta Santo di Làconi, che parlava appena il dialetto sardo e che si presentava con due occhi piccoli, quasi sempre timidi, in uno scarno volto olivastro, riempi di sé la Cagliari e la Sardegna del '700.
Fu sentito come figura indispensabile a una società che non voglia darsi per disperata e perduta. Passò per sessanta anni come frate di confronto e di frontiera, come voce della speranza che non delude, segno di un futuro che si fa sempre presente, proposta di valori evangelici elencati nelle beatitudini e vissuti alla francescana, un figlio di san Francesco con la bisaccia in spalla e con richiami escatologici di un Regno che è nel mondo ma non è di questo mondo.
Fu e resta, oggi ancora, un apostolo dalle pochissime parole, per le strade e nel cuore del popolo, per far capire - con la vita di ottanta anni la dimensione infinita dell'uomo.
fonte:
Cappuccini Cagliari
prima morire che perder la fede
... Ringraziava Dio d'esser nato da genitori cattolici ed aver da loro imparato le massime della santa fede... Ringraziava Dio d'averlo chiamato alla fede nel santo battesimo, ed alla religione in quest'Ordine di san Francesco... Ripeteva con frequenza gli atti di fede, di speranza e di carità, e con sommo fervore ne inculcava la frequenza ai suoi correligiosi...; li faceva recitare agl'infermi che visitava... Istruiva nel catechismo i fanciulli, esortando alla opportunità a pregare Iddio per l'esaltazione della Chiesa e per la dilatazione del cristianesimo; quando si recava alle case per la questua e visitava infermi, parlava dei misteri della fede, come della passione e morte di nostro Signore Gesù Cristo, della sua Incarnazione... Frequentemente esternava colle parole il vivo desiderio che aveva che tutto il mondo fosse cattolico e convertito all'adorazione del vero Dio Creatore e Redentore; e per contrario gli dispiaceva che tanti infedeli, eretici e scismatici non fossero nel seno della Chiesa, epperò pregava molto il Signore per la loro conversione... Per le strade intratteneva i ragazzi istruendoli nella dottrina cristiana, al che li allettava con dei regalucci, pezzetti di pane, fichi secchi e simili, li esortava ad imparare bene la dottrina... a far da buoni ed ubbidire i genitori...».
Fioretti ignaziani
L'esaltazione dell'umile
«Vero figlio» di san Francesco
Fratello vivo